Il tema è quello delle loot box, il «bottino» messo in vendita come acquisti in-game da parte di diversi videogiochi. E la domanda che il legislatore si pone, ormai da anni in realtà – dal 2010, con i primi «gacha games» giapponesi -, è «si tratta di gioco d’azzardo?». Per chi non seguisse il tema, e probabilmente dovrebbe farlo perché lui stesso o i propri figli ne vengono continuamente in contatto, si tratta della possibilità di comprare oggetti digitali che a vario titolo possono aiutare-migliorare l’esperienza all’interno di un videogioco che alla base è gratuito. Il contenuto di queste box è però segreto, una sorpresa diciamo, un qualcosa che sotto un altro punto di vista è una scommessa su cosa c’è al suo interno. Il Pegi, l’ente europeo che certifica l’età di riferimento dei giochi in base ai contenuti e alle dinamiche ha promesso ad aprile che creerà un’etichetta apposita per indicare quando l’acquisto comporta una casualità: Includes Paid Random Items. Questi acquisti hanno una percentuale di «vincita», cioè con quale frequenza possono comparire oggetti comuni, speciali o addirittura specialissimi. La cui variabile può influenzare pesantemente la resa nel gioco. E quindi si assimila al gambling. Questo avviene da anni negli Stati Uniti e in Canada, dove spesso le major dei videogiochi si trovano ad affrontare class action di consumatori che lamentano la poca trasparenza della pratica commerciale sottostante ai «bottini». In Olanda, per arrivare in territori più familiari a livello (anche) legislativo, lo scorso ottobre una sentenza ha sanzionato Electronic Arts per 10 milioni di euro per l’uso delle loot box all’interno di Fifa Ultimate Team, perché violano la legge del Paese sul gioco d’azzardo. In Italia la situazione è differente: dopo essersi anch’essa già espressa nei confronti di Electronic Arts, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato all’inizio di dicembre ha emesso un procedimento contro Activision Blizzard per «pratiche commerciali scorrette» nello specifico sui giochi Hearthstone e Overwatch «che offrono la possibilità di effettuare acquisti in-game e acquisti tramite loot box». Pratiche segnalate da Altroconsumo e dal Movimento Difesa del Cittadino. Sul tema, che riguarda molti giochi, diverse aziende e dunque diverse famiglie italiane, abbiamo interpellato Gianluca De Cristofaro, avvocato di LCA Studio Legale, esperto di proprietà intellettuale, diritto del marketing e della pubblicità.
Come siamo arrivati a queste richieste del garante? E perché in Italia non vediamo mai organizzare delle class action?
Da noi quelle che potremmo definire class action sono molto faticose da imbastire proprio a livello legislativo a causa delle peculiarità della normativa italiana in materia. Ci si rivolge dunque alle associazioni dei consumatori che chiamano in causa l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato. Entrambi i provvedimenti dell’Agcm sono alla fine arrivati a due cosiddetti consent order in cui il Garante accetta gli impegni assunti dagli operatori (in questo caso Ea e Activision Blizzard, ndr) per non arrivare alla sanzione. È una pratica ormai comune da noi, perché spesso accade, per evitare la multa, che questi impegni siano più alti delle richieste fatte, vadano cioè oltre. Il Garante li accetta e il caso si chiude. Ecco, in questi casi l’asticella non è stata per niente alzata, le due aziende si sono impegnate a fare quello che avrebbero potuto fare da tempo.
Ci spieghi meglio, nel dettaglio, che cosa intende.
Nel caso di Activision Blizzard, hanno deciso di mettere la targhetta del Pegi in evidenza sul sito Battle.net mentre prima era un po’ annacquata, messa in fondo alla pagina… ora è nella pagina nel dettaglio del gioco dove spiega che c’è la presenza di acquisti nel gioco. Secondo impegno: ora non ci sarà più scritto “gioca gratis” ma “scarica ora”, che è un cambio di comunicazione importante. Bisogna notare che l’impegno è su 90 giorni, in questo modo l’azienda è in grado di intervenire a livello europeo, cioè accumuli le richieste e poi fai una formattazione nei vari Paesi. Poi si passa all’impegno di fornire le informazioni dettagliate sulle probabilità di ottenere certi tipi di oggetti o carte in occasione dell’acquisto dei pacchetti virtuali (vedi gli screenshot, ndr). Ma questo ci porta a dire che le loot box sono un gioco nel gioco e dunque siamo nel mondo del gioco d’azzardo. E questo ha un impatto molto importante: come in Olanda, dove il giudice ha detto che sono assimilabili al gambling e dunque ha autorizzato a multare EA per le loot box in Fifa 21, cioè trattarle come gioco d’azzardo. In Cina non funziona così, sono più pragmatici, non qualificano i giochi. Devi definire di cosa si tratta: metti la probabilità di vincita oppure non li vendi.
E questo si potrebbe già fare da noi con la legge sulle pratiche commerciali scorrette, senza neanche doverli considerare gioco d’azzardo. Qualifica che serve per una protezione dei consumatori soprattutto dalla dipendenza. Però finché non li definiamo in quel modo, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli non può intervenire e dunque non ci possono essere sanzioni o blocchi commerciali. L’ultimo impegno è sul parental control, cioè all’interno degli store online l’operatore si impegna a mettere disposizione dei genitori strumenti per monitorare l’attività dei figli. E s’impegna come nel parental control il clic “permetti l’acquisto nel gioco” non sia “pre-flaggato” cioè pre-selezionato. Ma di opt-in e opt-out nella privacy se ne parla dal 2003, non possiamo considerare un vero impegno il non “pre-flaggarlo”, quello dovrebbe essere a priori.
Per quanto riguarda il parental control, però ci pare che Fifa Playtime attivato di recente da Electronic Arts su quello che in Italia è in assoluto il gioco più frequentato, sia un ottimo dispositivo messo a disposizione dei genitori. Fifa Playtime ha effettivamente funzioni attive nel parental control. Sia chiaro che io non voglio certo demonizzare quell’attività, però se si ha a che fare con i minori si deve stare molto attenti. E pur capendo che questa pratica dei loot box è la fonte maggiore di monetizzazione per le compagnie (circa 1,5 miliardi su 5,5 di fatturato totali per Electronic Arts, ndr), questo non può spingere le aziende a non implementare tutti quelli strumenti ottimi che ci sono già in circolazione, né un parental control serio per evitare acquisti sconsiderati da parte dei figli. Se non lo fai vuol dire che accetti il rischio di essere beccato, e intanto monetizzi. EA è arrivata al livello giusto, però ce n’è voluto di tempo.
Perché parliamo di ingannevolezza? Perché le buste di figurine in edicola sono lecite e invece quelle è pratica ingannevole?
Negli anni ’90, per capirci, il business delle figurine legate al baseball negli Stati Uniti valeva intorno al miliardo di dollari. Il tema è legato agli acquisti fuori dai locali commerciali. Quando sei in un negozio hai un’awareness piena, cioè sei consapevole di dove ti trovi e cosa ci stai facendo. Comprare. Quando sei fuori dei locali commerciali la tua attenzione è inferiore, hai la guardia abbassata e dunque tu che vendi devi essere molto più trasparente. Questo è in una normativa sulla vendita a distanza della Direttiva Europea del 1997, attuata in Italia nel 1999, e poi confermata dalla direttiva sull’ecommerce del 2000 ripresa in Italia nel 2003. Perché quando sei online, sei fuori da locali commerciali, quindi sei portato al cosiddetto acquisto di impulso. Per questo servono regole e dichiarazioni su quello che acquisti molto più trasparenti. È come quello che ti fermava in corso Buenos Aires, anni fa a Milano, e provava a venderti l’enciclopedia. Ti prendo quando sei distratto, sei switchato non sulla pubblicità cioè non hai questa informazione e quindi te la bevi più facilmente. Nei free-to-play il tema dell’ingannevolezza è ancora più grave, perché di mezzo ci sono i bambini. Penso alle app che per disegnare sull’iPad che ho scaricato per le mie bimbe durante il lockdown: fai un disegno e poi per andare avanti devi per forza comprare. Apple è intervenuta di recente: se in qualche misura la tua app può essere considerata gioco d’azzardo, viene di default valutata +17 anni. È proprio per il concetto di ludopatia che può intervenire, perché i bambini non hanno filtri e vogliono comprare tutto.
Qui l’intervista completa a cura di Federico Cella su Corriere della Sera.