In Italia esiste un riferimento al diritto alla disconnessione in una legge del 2017. Ma considerata la diffusione dello smart working oggi, non è abbastanza: noi abbiamo approfondito il tema del diritto alla disconnessione alla Milano Digital Week. Quanto emerso durante il webinar è stato poi ripreso su Il Corriere della Sera.
«Ormai è evidente a tutti che il fenomeno dello smart working interessa ogni categoria di lavoratore, dall’operaio al dirigente – sostiene Gabriele Calabrò – L’emergenza ha contribuito alla sua diffusione in modo strutturale. Oggi lo si fa per questioni di sicurezza, prima lo si faceva per questioni di sostenibilità e un domani lo si farà per entrambi ma anche per questioni economiche. È necessario quindi analizzarne le implicazioni sulla collettività. Bisogna sentirsi liberi di essere offline senza conseguenze sulla sua situazione lavorativa. Il problema è la paura di discriminazioni o ritorsioni se decide di non rispondere».
«Si riconosce come il progresso tecnologico comporti un nuovo livello di complessità nei monitoraggio che il datore di lavoro può esercitare sul lavoratore anche utilizzando strumenti più intrusivi rispetto al passato», interviene l’avvocato Alessia Placchi. «Possono essere esposte a ingerenze e controlli più insidiosi, perché meno percettibili, da parte del datore di lavoro. Prevenire gli eccessi di controllo equivale a tutelare il tempo libero del lavoratore, che può così autodeterminarsi».
C’è poi il tema della sostenibilità sociale. «Gli psicologi del lavoro – dice Annateresa Chimenti – si sono molto interrogati perché hanno scoperto delle falle. Ci sono due categorie di conseguenze negative. Il primo è il Tecnostress, ovvero le conseguenze psicofisiche del cattivo utilizzo delle apparecchiature elettroniche. Molti manager non hanno accettato lo smart working e hanno contribuito, con il loro atteggiamento, a creare un senso di ansia tra i dipendenti, unito alla monotonia e all’isolamento delle giornate in smart working. Il secondo è il Burnout, di cui si parla come una vera e propria sindrome. Le manifestazioni più comuni sono il cinismo nei confronti della propria mansione, ma addirittura è stato dimostrato che può avere influenze sulla produttività».
L’articolo integrale su Il Corriere della Sera a cura di Michela Rovelli.