«In questi giorni penso che se qualcuno dicesse alle mie figlie che io e Vittorio non siamo i loro papà si farebbero solo una grande risata, per quanto questo sia impensabile per loro»
Era l’ottobre 2018 e al sindaco Sala era arrivata una lettera di due papà: «Trascriva anche il certificato di Anna e Maria, e quelli di tutti gli altri bimbi in attesa, lo faccia subito. Non sbagli ancora restando fermo». Quel certificato è stato trascritto un mese dopo — grazie a una sentenza del tribunale di Milano — e da allora Anna e Maria, che adesso hanno cinque anni, sono anche per la legge italiana quello che nella vita reale erano già: figlie di Matteo Uslenghi, avvocato penalista, e di suo marito Vittorio.
La vostra famiglia è una di quelle fortunate: la trascrizione è arrivata prima dello stop del governo.
«Già, siamo al punto che bisogna parlare di fortuna. Ed è per questo che, da fortunato, penso sia giusto mettere da parte la mia indole che non è da barricadero e affiancare le famiglie che adesso sono nel limbo nella loro battaglia. È doveroso, da parte di chi — diciamo così — è “a posto” sostenere il diritto di altri bambini».
Vostre figlie nate all’estero con la gestazione per altri: qual è stato il percorso che avete fatto?
«Le bambine sono nate a dicembre 2017 in California, a febbraio siamo tornati a Milano con il loro certificato di nascita americano con entrambi i nostri nomi come genitori. Abbiamo chiesto al Comune di trascrivere l’atto, sono passati alcuni mesi e dopo un primo diniego, ci siamo rivolti al tribunale. Che ha ordinato al Comune di farlo. E questo prima che la Corte Europea si esprimesse sulla questione, stabilendo l’interesse primario del bambino e che quindi il modo in cui nasce non può incidere sulla sua tutela».
Cosa ha voluto dire, nella pratica, la trascrizione?
«Senza la trascrizione le gemelle, nonostante siano figlie di padri italiani, sarebbero rimaste extracomunitarie, quindi con una serie di limitazioni all’accesso ai servizi pubblici. Ai diritti in generale, vorrei dire. Perché banalmente essere i loro padri su tutti i documenti vuol dire che nessuno ci chiede chi siamo e tantomeno uno di noi due deve autorizzare l’altro per le attività — dall’andare a prenderle a scuola a salire su un aereo — che altrimenti richiederebbero una delega».
La strada indicata dalla Cassazione, base della circolare del governo al prefetto, è quella dell’adozione. Perché non è una strada corretta, per lei?
«A parte che la stepchild adoption non parifica al cento per cento i due genitori e ha delle storture, anche per quanto riguarda i doveri dei genitori, il punto è un altro: sono i nostri figli, perché dovremmo adottarli? In questi giorni penso che se qualcuno dicesse alle mie figlie che io e Vittorio non siamo i loro papà si farebbero solo una grande risata, per quanto questo sia impensabile per loro».
Pensa che questa circolare sia un primo passo verso altro?
«Gli indizi di un percorso non lineare ci sono tutti, la circolare del prefetto di Milano espande quella del ministro a casi completamente diversi. La Cassazione ha parlato solo di maternità surrogata. O meglio: di gestazione per altri: non c’è una donna che concepisce un figlio e decide di venderlo, ma c’è una donna che sceglie di prendersi cura del figlio di qualcun altro. La direzione del prefetto è pericolosamente più ampia, contro tutti i genitori dello stesso sesso. E i diritti in gioco di chi sono? Sempre e solo dei bambini: di questo non si rendono conto».
Teme che questa circolare possa avere effetti retroattivi?
«Paura non ne ho, lo dico serenamente, perché siamo abituati a fare battaglie per i nostri diritti. Trovo che sia un metodo rischioso, quello scelto per limitarli. Ma una cosa so: che stare al fianco di chi adesso si vedrà negato un diritto è anche un modo per pensare al futuro delle mie figlie, perché nessuno possa mai dire loro che sono “nate male”, venute al mondo in modo sbagliato. Perché crescano in un mondo un po’ meno chiuso di quello che vorrebbero imporci».
L’intervista a Matteo Uslenghi a cura di Oriana Liso su la Repubblica.