L’attacco turco in Siria, iniziato mercoledì 9 ottobre, continua a suscitare polemiche. Stavolta, però, le critiche non investono direttamente Erdogan ma due calciatori turchi (Demiral e Under), i quali hanno appoggiato sui social network l’attacco turco.
Il difensore della Juventus Demiral ha pubblicato sul suo profilo Twitter una foto di un militare con alle spalle un carro armato con bandiera turca; all’interno della foto campeggia una scritta in cui si accusano i curdi di essere un’associazione terroristica. Il tutto accompagnato dalla scritta “operazione di pace” (nome che Erdogan ha assegnato all’operazione bellica in corso contro i curdi in Siria) posta come didascalia.
Il calciatore della Roma Under ha, invece, postato su Twitter la sua esultanza con saluto militare accompagnato in didascalia da tre bandiere turche.
Tali post hanno suscitato varie polemiche. Alcuni tifosi hanno addirittura chiesto alle rispettive società di licenziarli. E il caso si è esteso a tutti i calciatori della nazionale turca, a seguito del saluto militare dopo la partita con la Francia. Si sono richiamati i precedenti del saluto romano della Nazionale italiana in epoca fascista e tanti altri episodi in cui lo sport ha incrociato la storia e la politica. Da Jessie Owens ai boicottaggi olimpici, passando per Tommy Smith e la nazionale jugoslava di calcio esclusa dall’Europeo 1992.
Ma è possibile licenziare un calciatore sulla base dei fatti sopra esposti?
Il tema è complesso e di non facile soluzione. Ci sono, infatti, interessi contrapposti da tutelare: da un lato la libertà di manifestazione del pensiero dello sportivo; dall’altro l’immagine della società di cui i calciatori sono a tutti gli effetti lavoratori subordinati (con il conseguente obbligo, in capo a questi, di rispettare le norme di legge, del contratto collettivo e di eventuali codici etici delle società).
Juventus e Roma non hanno, ad oggi, preso provvedimenti nei confronti, rispettivamente, di Demiral e Under. Nella peggiore delle ipotesi, in particolare se il loro comportamento non dovesse cessare, il loro contratto potrà essere sciolto unilateralmente dalle società per grave inadempimento. In tale ultima ipotesi, se la risoluzione del contratto fosse motivata esclusivamente dal fatto che i calciatori hanno appoggiato l’attacco turco in Siria, il licenziamento potrebbe essere dichiarato nullo in quanto fondato su ragioni di carattere politico e/o razziale (e, quindi, discriminatorio).
Più probabile che Juventus e Roma adottino nei confronti dei citati calciatori sanzioni conservative (multa o periodo fuori rosa) sul presupposto che essi hanno violato, oltre al codice etico delle società, anche l’art. 10 del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro, secondo cui il calciatore “deve evitare comportamenti che siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine della Società”.
In un caso analogo avvenuto in Germania, il St. Pauli (club tedesco che milita nella seconda divisione del paese), ha deciso di mettere subito fuori rosa il proprio centrocampista turco Cenk Sahin che si era reso protagonista di alcuni post su Instagram nei quali inneggiava alla guerra di Erdogan contro il popolo curdo in Siria, motivando così la propria decisione: “I principali motivi sono il ripetuto disprezzo dei valori del club e la necessità di proteggere il giocatore. Il fatto che rifiutiamo ogni atto di guerra non può essere in discussione”.
Vedremo come reagiranno Juventus e Roma. E le altre squadre che hanno giocatori turchi. Ma il tema è destinato ad espandersi, come dimostra la richiesta di togliere ad Istanbul il diritto di ospitare la finale di Champions League del 2020. E tra lo sport e la politica, il diritto dovrà giocare un ruolo importante.