L’evoluzione dei mezzi di comunicazione e la concentrazione delle risorse pubblicitarie verso i new media potrebbero portare gli utenti a pensare che la pubblicità tradizionale non sia più attuale. Un esempio di segno opposto e, se vogliamo, del tutto contro-intuitivo, viene da uno dei più evoluti fornitori di servizi via internet: Spotify.
Spotify è un servizio legale di streaming musicale online on-demand, basato su due tipologie di fruizione: l’una gratuita, in base alla quale l’utente può ascoltare i brani della libreria di Spotify, con l’intermezzo di alcuni annunci pubblicitari; l’altra, a pagamento, che consente all’utente di ascoltare la musica della medesima libreria senza interruzioni pubblicitarie, oltre ad alcune peculiari funzioni.
Tra le funzioni disponibili per gli utenti, oltre alla facoltà di selezionare i brani on-demand, esiste la possibilità di creare e personalizzare playlist, condividendo con gli altri utenti o attraverso i social network le proprie preferenze musicali.
Appare evidente come le menzionate funzioni consentano a Spotify di ottenere allo stesso tempo dati sulle abitudini e gusti musicali degli utenti (dati generati dalla piattaforma), nonché contenuti generati direttamente dagli utenti (ad esempio, le playlist).
Chiaramente, l’uso dei dati degli utenti (siano essi generati dalla piattaforma ovvero dagli utenti) è debitamente regolamentato nei Termini e Condizioni del servizio (T&C) nonché nell’informativa privacy di Spotify. Attraverso la sottoscrizione di un abbonamento – e quindi con l’accettazione degli stessi T&C e il consenso all’uso dei dati personali – gli utenti consentono a Spotify di usare i propri dati di utilizzo del servizio, nonché i contenuti generati dagli utenti stessi, sia per finalità legate al servizio, sia per finalità commerciali e di marketing.
Basti pensare che l’utente, aderendo ai menzionati T&C, concede a Spotify una licenza “non esclusiva, trasferibile, subappaltabile, senza royalty, perpetua […], irrevocabile e valida a livello mondiale” sui contenuti generati dagli utenti, che Spotify potrà “utilizzare, riprodurre, rendere disponibile al pubblico (ad esempio per un’esibizione o una mostra), pubblicare, tradurre, modificare […] e distribuire […] attraverso qualsiasi mezzo”.
La rilevanza di questi dati è enorme, poiché consente a Spotify di quantificare quanto dovuto alle case discografiche in relazione all’effettivo successo delle canzoni degli artisti ad esse legati e allo stesso tempo permette alla società di capire i gusti degli utenti e le tendenze degli stessi, in modo da vendere ai propri inserzionisti pubblicità a maggior valore aggiunto (perché indirizzata a un target più specifico) e scegliere gli artisti e/o le case discografiche da includere nella propria libreria.
Oltre a questi utilizzi, abbastanza comuni a tutti gli operatori online, i creativi di Spotify hanno iniziato fin dall’anno scorso ad utilizzare i dati aggregati (e non solo) dei propri utenti per realizzare alcune campagne marketing particolarmente efficaci. Se il servizio pubblicizzato è estremamente attuale e innovativo, la tipologia di advertising è quanto di più classico esista: cartelloni pubblicitari nelle principali città del Mondo, con il claim “Thanks 2016, it’s been weird” (“Grazie 2016, è stato strano”).
La stranezza a cui si riferisce il claim è quella delle scelte di alcuni utenti e i messaggi pubblicitari traggono proprio spunto da alcune curiosità di utilizzo della piattaforma. Ad esempio: “Dear person who played “Sorry” 42 times on Valentine’s Day, what did you do?” (“Caro utente che nel giorno di San Valentino ha ascoltato 42 volte “Sorry”, cosa hai combinato?”); oppure “Dear 3,749 people who streamed “It’s The End Of The World As We Know It” the day of the Brexit Vote. Hang in There.” (“Care 3.749 persone che hanno ascoltato “It’s The End Of The World As We Know It” nel giorno del voto sulla Brexit. Tenete duro.”).
Tralasciando l’efficacia – indubbia – della campagna promozionale, nonché l’ipotesi che il tutto sia un’abile mossa pubblicitaria senza che effettivamente i dati di partenza siano quelli derivanti dalle abitudini d’uso degli utenti, ciò che rileva dal punto di vista legale è che i singoli utenti, come spesso accade in occasione della sottoscrizione di abbonamenti a servizi online, autorizzano le piattaforme ad usare i dati degli stessi per finalità commerciali consentendo, nel caso specifico, a Spotify di utilizzare lecitamente sia le abitudini di ascolto sia i contenuti generati dagli utenti per la creazione di campagne pubblicitarie.
Ecco un link che raccoglie immagini – tra gli altri – dei messaggi pubblicitari sopra riportati.