Media , News | 16.12.2020

Cosa caratterizza un’operazione di venture capital?


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Ormai è diventata un’abitudine per gli investitori negoziare l’acquisto di significative fette di equity a fronte di piccoli finanziamenti. Una prevaricazione, questa, che comporta per il nucleo originario dei soci la rinuncia quasi immediata fino anche al 30% del capitale neocostituito.

Tale impostazione non solo risulta disallineata alla prassi anglo-americana del venture capital, da sempre considerata più evoluta e modello di riferimento per gli operatori del settore, ma soprattutto appare già intuitivamente penalizzante per le aspettative dei fondatori. A fronte di una captable già sbilanciata verso i primi finanziatori della società, si corre infatti il rischio che nuovi investitori (si pensi ai fondi stranieri), seppur attratti dal progetto di crescita della società, decidano di orientarsi altrove, vedendo nei founder poco più che dei “dipendenti” dei primi investitori.

Sembrerebbe quindi che, nella prima fase di vita di una startup (intendendosi per tale i primi due round di investimento), sia più coerente con le logiche del venture capital dare preminenza ai soci fondatori, affinché gli stessi possano compiutamente portare a maturazione il proprio progetto e, ove del caso, possano anche garantire ai successivi investitori l’accesso nella società senza per ciò vedere sostanzialmente azzerata la propria partecipazione.

Non passano poi inosservate alcune scelte in tema di corporate governance. Benché il venture capital nasca concettualmente per facilitare lo sviluppo di un’idea attraverso iniziali risorse finanziarie e un primo network di conoscenze, si rileva come gli investitori arrivino spesso ad ingerirsi nella gestione della società anche con un approccio eccessivamente cogente. Ciò che accade nella prassi è che vengano riconosciuti penetranti diritti di veto, che di fatto lasciano a questi ultimi la decisione su vasti elenchi di materie aventi natura meramente operativa. Una scelta del genere, ad onor del vero, ci sembra poco attinente al settore e più caratteristica di un private equity, dove il taglio dell’investimento e il ritorno atteso dagli stakeholder sono indubbiamente più rilevanti e dove il controllo della prima linea dei soci finanziari deve necessariamente essere penetrante.

Sempre in tal senso, un’ultima considerazione va infine fatta sulle regole anti-diluitive e di liquidazione preferenziale. Queste previsioni hanno ormai assunto negli anni connotati sempre più complessi e a tratti incoerenti con l’investimento nelle startup. Con riferimento alle prime, la tendenza che si registra è che già nelle operazioni seed gli investitori insistano per ottenere clausole di protezione massima (cc.dd. full ratchet); a differenza di previsioni più equilibrate (come per le clausole cc.dd. weighted-average), gli effetti diluitivi ricadono principalmente sui founder, i quali subiscono perdite potenzialmente irreparabili. Nel secondo caso, si assiste invece a strutture di waterfall sempre più articolate che, lungi dal limitarsi a calmierare il rischio di una exit poco remunerativa a fronte del capitale investito, si dimostrano invece significativamente predatorie e distruttive delle aspettative degli altri soci.

L’articolo, scritto da Andrea Messuti insieme a Stefano Giannone Codiglione, è stato originariamente pubblicato su We Wealth.


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