Le pmi italiane ancora si finanziano, per l’80%, in banca (contro il 44% degli Usa e il 60% dell’Europa). Ma guardano con interesse sempre maggiore canali alternativi, come la Borsa, verso cui hanno però bisogno di essere guidate. In particolare è l’Aim, il listino delle pmi di Piazza Affari, il loro possibile punto di sbocco: un mercato che in cinque anni è diventato il maggior hub europeo per numero di Ipo (35 nel 2019, il 26% del totale nel Continente) con una capitalizzazione di 5,8 miliardi di euro grazie alle 127 società quotate in tutto (+76% in tre anni). I dati sono quelli dall’ultimo Osservatorio Aim di IR Top Consulting.
Ad attrarre l’attenzione sulla raccolta del capitale attraverso Ipo su Aim sono le caratteristiche stesse del mercato, che prevede una procedura molto semplificata rispetto a Mta (il segmento principale) e dunque ben si adatta alle dimensioni della tipica azienda italiana. Ma anche una serie di incentivi governativi, che vanno dall’introduzione, nel Decreto Rilancio, dei Pir alternativi – che hanno aumentato il massimale annuo esentasse da 30mila e 150mila, coinvolgendo quindi investitori Hnwi e professionali (anche grazie al segmento dedicato di cui parleremo più avanti) – al Credito di Imposta sui costi di quotazione introdotto con il Decreto del 19 giugno 2018, per il quale è in corso una vera battaglia finalizzata a estenderlo per un ulteriore triennio, fino al 2023.
Non solo. È in atto, parallelamente, un cambiamento culturale che, lento ma inesorabile, sta avvenendo sotto traccia anche nel mondo imprenditoriale, come illustra l’avvocato Andrea Messuti. “Il sistema imprenditoriale italiano è ancora molto bancocentrico, ma negli ultimi dieci anni sta cambiando pelle, approcciandosi al mercato dei capitali. E su questo mercato un imprenditore ha di fatto due alternative: far entrare un fondo di private equity che ha richieste stringenti in termini di governance e di diritti di veto, quindi esercita un ingresso considerato talvolta invasivo, finalizzato a una exit che si può concretizzare essa stessa con una Ipo su cui l’imprenditore non ha controllo; oppure fare l’Ipo per raccogliere direttamente capitali sul mercato. Sicuramente oggi il mercato Aim, al netto della situazione pandemica, è un’ottima opportunità sotto il profilo della raccolta di capitali freschi per le pmi”.
In generale, si assiste a un’evoluzione in base a cui, se prima la società cresceva in maniera organica per andare all’estero e per fare M&A e l’Ipo rappresentava il passo finale, “uno strumento che andava a liquidare i fondi che nel frattempo si erano susseguiti nel capitale aziendale, oggi l’Ipo diventa di fatto concorrente del private equity”.
I vantaggi dell’Ipo non si esauriscono nel reperimento di capitali freschi in maniera diretta sul mercato, vanno ben oltre. “Uno dei principali benefici per l’impresa è che assume uno standing internazionale: ovvero diventa visibile in tutto il mondo e accessibile agli investitori ovunque essi siano. Investitori o compratori industriali. Dunque l’Ipo è un biglietto da visita importantissimo, che si guadagna a fronte di obblighi di governance leggeri, che vanno da quello di produrre un bilancio e una semestrale certificata, di avere almeno un indipendente nel Cda e il nominated advisor che accompagna l’azienda nell’Ipo e successivamente nel percorso di Borsa, sovrintendendo all’attività di compliance. La società si dovrà dotare inoltre di regole di internal dealing per gestire i rapporti con le parti correlate”. Tutto questo contribuisce a renderla cristallina rispetto al mercato, ma senza richiedere obblighi stringenti.
“La maggioranza delle Ipo avviene in aumento di capitale, quindi consiste in nuove risorse che entrano in società per andare a finanziare un business plan. I fondi che investono sono dormienti e l’azienda rimane sotto il controllo dell’imprenditore”, osserva Messuti.
Certamente ci sono anche delle criticità, come il fatto che Aim sia un mercato poco liquido, “il che comporta che con poche vendite o acquisti il titolo schizzi in su e in giù. Ma chi si vuol quotare su Aim ha interesse a raccogliere fondi per poi fare il salto al mercato principale. Il che implica un approccio paziente non improntato ai movimenti di breve termine. Insomma, l’unica criticità che vedo è data dalla esiguità degli scambi, ma potrebbe essere ininfluente per gli scopi dell’imprenditore”. A dare ulteriore sprint al mercato c’è oggi, infine, il segmento professionale, introdotto dal 20 luglio: è riservato agli investitori professionali per rispondere alle esigenze di quotazione di un più ampio numero di imprese. “Ed è pensato per società che preferiscono accedere con gradualità al mercato, dotandosi progressivamente delle strutture necessarie: per esempio si adatta anche a start-up e scale-up che devono ancora avviare fondamentali funzioni e processi strategici previsti dal modello di business e desiderano aumentare la propria visibilità con gli investitori prima di procedere all’offerta”, dice Messuti.
Alle società ammesse al Segmento professionale si applicano regole specifiche, quali un flottante minimo pari ad almeno il 10% del capitale e sottoscritto da almeno cinque investitori che non siano parti correlate, né dipendenti della società o del gruppo. “In questo modo Aim diventa una vetrina per l’investitore professionale per fare screening di potenziali startup: insomma”, conclude Messuti, “un’alternativa anche a venture capital e crowdfunding”.
Questa intervista, a cura di Laura Magna, è stata originariamente pubblicata su We Wealth.