La Corte costituzionale con la sentenza n. 68 ha stabilito che è incostituzionale vietare il riconoscimento di un figlio, nato in Italia grazie alla procreazione medicalmente assistita (PMA) praticata all’estero, da parte di entrambe le madri di una coppia omosessuale (ossia, non solo il riconoscimento della donna che ha partorito, ma anche quello della c.d. madre intenzionale che ha espresso il consenso alle dette tecniche fecondative).
La sentenza della Corte costituzionale trae origine dalla questione di legittimità sollevata nel 2024 dal Tribunale di Lucca in relazione al riconoscimento di bambini nati in Italia e concepiti all’estero tramite fecondazione eterologa come figli di due madri.
Tale vicenda si origina dal fatto che nel 2023 alcune Procure, tra cui proprio quella di Lucca, avevano chiesto ai Tribunali di cancellare il nominativo della madre intenzionale dagli atti di nascita di molti bambini, ritenendo che quest’ultima potesse soltanto adottare (con la c.d. “stepchild adoption”) il bambino concepito all’estero anche grazie al suo consenso, senza però poterlo riconoscere direttamente alla nascita.
Dopo un lunghissimo percorso giudiziario, la Corte è arrivata ad affermare che il quadro normativo e giurisprudenziale esistente sino ad oggi sul punto, non assicurava affatto il miglior interesse del minore ma, anzi, ne comprometteva il diritto all’identità personale e familiare.
Infatti, il mancato riconoscimento fin dalla nascita dello stato di figlio di entrambi i genitori costituiva una lesione di diritti costituzionalmente garantiti, in particolare dagli artt. 2 (per la lesione dell’identità personale del nato e del suo diritto a vedersi riconosciuto sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile), 3 (per la irragionevolezza dell’attuale disciplina in assenza di un contro interesse di rango costituzionale) e 30 (perché lede i diritti del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e nei confronti di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi nei confronti dei figli) della Costituzione.
Secondo la Corte costituzionale, dunque, l’articolo 8 della legge numero 40 del 2004 è costituzionalmente illegittimo, nel punto in cui non prevede che il bambino nato in Italia e concepito all’estero con PMA, sia riconosciuto anche dalla madre intenzionale. Ciò, sulla scorta di due rilievi: (i) la responsabilità che deriva dall’impegno comune che una coppia si assume nel momento in cui decide di ricorrere alla PMA per generare un figlio, impegno dal quale, una volta assunto, nessuno dei due genitori, e in particolare la madre intenzionale, può sottrarsi; (ii) la centralità e superiorità dell’interesse del minore.
Riassumendo, se le coppie lesbiche ricorrono all’inseminazione eterologa all’estero, devono poter seguire lo stesso “percorso” che vale per le coppie eterosessuali. Esattamente come il padre di un bambino che nasce da fecondazione eterologa dà il consenso alla PMA ed è da subito il genitore del bambino che nascerà in Italia, allo stesso modo anche la madre intenzionale deve poter essere riconosciuta all’anagrafe italiana come tale.
Si tratta senza dubbio di una sentenza storica, che si colloca all’interno di un orientamento giurisprudenziale sempre più sensibile all’esigenza di una riforma del diritto delle famiglie, capace di rispecchiare l’evoluzione della società.
Con la pronuncia in commento, la Corte Costituzionale ha accelerato il procedimento finalizzato ad eguagliare le poliedriche famiglie che oggi appartengono alla società ponendo fine ad una situazione giurisprudenziale caotica, discriminatoria ed angosciante, tale da pregiudicare, in primo luogo, troppi minori.