Negli ultimi giorni è circolata notizia della possibile introduzione, nell’ambito della Legge di Bilancio 2018, di una norma di interpretazione autentica dell’art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR volta a tassare come “reddito diverso” le eventuali plusvalenze realizzate da collezionisti privati nella cessione a terzi delle proprie opere d’arte.
La modifica, che in base ad una prima ipotesi di lavoro avrebbe avuto efficacia retroattiva per tutte le annualità ancora accertabili (anni dal 2012 al 2016), ha destato lo sconcerto dei professionisti e ha procurato la comprensibile preoccupazione nei collezionisti che hanno ceduto opere nell’ultimo quinquennio.
Ad oggi della novella normativa pare non esservi più traccia nella bozza di Legge di Bilancio, ma non si può escludere che l’attuale assetto normativo possa essere oggetto di un prossimo intervento da parte del Legislatore, auspicabilmente in termini meno dirompenti rispetto alla prima ipotesi formulata.
Nell’ordinamento italiano non è presente una norma che preveda una tassazione in capo al collezionista che cede le opere possedute nella sfera privata e nell’ambito di un’attività non speculativa, mentre la tassazione della cessione effettuata con finalità speculative, se qualificabile come attività commerciale non abituale, è già prevista dall’art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR.
A parere di chi scrive, un possibile intervento normativo dovrebbe limitarsi a identificare quando si è in presenza di un intento «speculativo», eventualmente anche ricorrendo a presunzioni, ma sempre prestando attenzione a non equiparare fattispecie che presentino connotati del tutto differenti.
Accomunare il collezionista d’arte, che agisce con uno spirito avulso da intenti speculativi, a chi opera nell’ambito di un’attività commerciale, sia essa abituale od occasionale, non è condivisibile. Ben diverso è, infatti, il caso di chi vende un’opera con lo scopo, come spesso accade, di impiegare la liquidità riveniente per l’acquisto di un’altra opera più rispondente ai propri gusti personali, rispetto al caso di chi acquista un’opera con l’intento di rivenderla realizzando un profitto.
Si auspica, quindi, che il Legislatore e l’amministrazione finanziaria non si orientino verso una asettica equiparazione tra collezionisti genuini e speculatori, ma continuino a valorizzare, possibilmente con minori margini di incertezza, le differenze correnti tra le diverse casistiche.