La Corte di Cassazione ha recentemente emesso un’interessante sentenza (Cass. civ. Sez. I, 25-05-2016, n. 10826) sull’uso del patronimico come marchio. La Suprema Corte ha stabilito che per settori merceologici identici o affini non è più possibile adottare come segno distintivo il proprio nome anagrafico se lo stesso in precedenza è stato validamente registrato come marchio (oltre che come denominazione sociale), salvo il suo impiego limitato secondo i principi di correttezza professionale.
Ciò che emerge dalla pronuncia della Cassazione è quanto segue: un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio denominativo non può essere adottato neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, ove esso sia stato oggetto di registrazione, prima, e di notorietà, poi, ad opera dello stesso creativo che poi l’abbia ceduto ad altri.
Il caso in esame interessa il noto stilista Elio Fiorucci e le società a lui collegate. Nel 1990, la Fiorucci S.p.A. ha ceduto alle società Edwin Co. Ltd. e Edwin International (Europe) GMBH tutto il proprio patrimonio creativo, inclusi i propri marchi contenenti il nome “Fiorucci”. A seguito della cessione, lo stilista ha poi registrato e utilizzato altri marchi, tra cui “Love Therapy by Elio Fiorucci” e “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci”. I marchi sono stati utilizzati per capi e accessori d’abbigliamento, gadget e per operazioni di merchandising e cobranding nella vendita di dolcificanti ipocalorici.
In passato, è accaduto, soprattutto nel settore della moda e del design, che l’uso del patronimico da parte del fondatore in epoca successiva alla cessione dell’azienda fosse considerato dalla giurisprudenza lecito in quanto usato in maniera puramente descrittiva del nome dello stilista e non in maniera distintiva. Conseguentemente, pareva pacifico che la creazione di nuovi marchi denominati “Love Therapy by Elio Fiorucci” e “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci” fosse assolutamente lecito in quanto riferibili ad una mera paternità stilistica.
Tuttavia, tali nuovi marchi, nella misura in cui contenevano il nome dello stilista, di fatto collidevano con gli “originali”, ora di titolarità del gruppo Edwin International. La società giapponese ha pertanto lamentato la contraffazione dei propri marchi Fiorucci e la concorrenza sleale posta in essere a suo danno.
Nell’ambito del processo, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto legittimo l’uso del nome anagrafico del designer nei “successivi” marchi (i.e. “Love Therapy by Elio Fiorucci” e “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci”), sulla considerazione che tale nome esprimeva semplicemente la personalità di Elio Fiorucci, con chiaro intento descrittivo e non distintivo. Secondo la pronuncia della Corte di Appello meneghina, l’espressione “by Elio Fiorucci”, infatti, non aveva altro significato se non quello di manifestare l’apporto personale dello stilista alle attività in questione, il che escludeva ogni possibilità di illecito. Da qui il ricorso in Cassazione di Edwin International.
Secondo la Suprema Corte, invece, “in tema di cessione di marchio (nella specie “Fiorucci”), l’inserimento, in quest’ultimo, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona, che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa ma senza trasformare la stessa in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva.”
Nel caso di specie, dove l’uso del proprio nome anagrafico, oltre a collidere con un noto marchio anteriore altrui, non trova alcuna ragione descrittiva soprattutto con riferimento ai prodotti e servizi offerti diversi dall’abbigliamento (è questo il caso dei gadget e dei dolcificanti ipocalorici), è ben ragionevole considerare un tale utilizzo commerciale del patronimico come non conforme ai principi della correttezza professionale.
La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello e ha rinviato la causa al giudice di merito il quale dovrà, quindi, pronunciarsi nuovamente sul caso e motivare la futura decisione tenendo presente che, per considerare lecito l’utilizzo di un segno distintivo contenente un patronimico che coincida con un precedente marchio registrato, è necessario che esista una concreta esigenza descrittiva in riferimento all’attività svolta (oltre che circostanziata ad un ambito limitato). In caso contrario, da un indebito sfruttamento della capacità evocativa del patronimico deriverebbero gli effetti illeciti di agganciamento e confusione.